Bellezza ammirata e bellezza ignorata

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 21 novembre 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Riprendendo il filo della discussione della scorsa settimana, sviluppato proseguendo le riflessioni che sto proponendo dal mese scorso[1], e ricollegandomi alle tematiche correlate del Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, distinguerei il bello che attualmente si tende ad apprezzare da quello che si tende più spesso a ignorare.

Bellezza ammirata è sicuramente la bellezza della natura percepita visivamente e riconosciuta da tutti come tale, probabilmente sulla base dello sviluppo evolutivo del cervello, esposto per milioni di anni attraverso la visione agli stessi valori biologici rivelati dalla luce e in parte riconducibili alla luce stessa. La funzione dell’occhio serve per vedere ogni cosa, ma la percezione della bellezza costituisce l’espressione più alta e gratificante del suo potere di veicolare la realtà nella nostra mente e nella nostra vita.

Fino a qualche decennio fa, in anatomia si descrivevano tre aree della corteccia cerebrale responsabili dell’elaborazione delle informazioni provenienti dalla retina e condotte al cervello dal nervo ottico e dalle vie ottiche; ora le aree corticali visive note sono trentadue, molte delle quali sono state scoperte da ricercatori guidati da Semir Zeki, un grande appassionato d’arte, cultore della bellezza e fondatore della neuroestetica. Questi studi e le altre acquisizioni neuroscientifiche sulla percezione visiva ci aiutano a comprendere perché la massima parte delle persone, se non tutti coloro che abbiano il bene della vista, concorda nel ritenere oggettiva la bellezza naturale[2].

Al polo opposto di questa bellezza che ci accomuna, esprimendo una facoltà naturale, sembra collocarsi il riconoscimento di ciò che è ammirevole come qualità astratta, perché questo non dipende dal mero esercizio della facoltà affettivo-cognitiva di elaborare le informazioni trasmesse al cervello come impulsi elettrici dopo la trasduzione fisicochimica dello stimolo luminoso sui fotorecettori conici e bastoncellari della retina, ma dipende dalla formazione culturale di ciascuno, interpretata secondo la psicologia e la sensibilità individuale[3]. Nell’ampia categoria della “formazione culturale”, che ho voluto intendere nel senso che l’antropologia attribuisce alla parola “cultura”, includo la tensione spirituale sviluppata attraverso la sensibilità religiosa e tutte le forme di orientamento del gusto prodotte nel contesto umano da apprendimenti ed esperienze significative e protratte. È vero che c’è chi non conosce la contemplazione e non si ferma neanche un istante ad osservare nulla e sembra non accorgersi nemmeno dello splendore naturale più evidente, ma è pur vero che quell’atteggiamento, che può anche essere effetto temporaneo di particolari stati d’animo, generalmente cede al cospetto del bello naturale, soprattutto se indicato da qualcuno che aiuta a sollevare la cortina mentale determinata dall’abitudine all’indifferenza.

Bellezza ignorata è spesso la bellezza della generosità, dell’altruismo, del sacrificio, dell’integrità, dell’onestà, della castità, della sincerità, della riconoscenza, della rinuncia al tornaconto personale, dell’idealità realizzata, della laboriosità disinteressata, della coerenza di vita con principi per la salvaguardia del benessere comune, della rinuncia all’odio, al rancore, alla vendetta, del perdono incondizionato, della vita spesa nell’amore degli altri e non nel culto di sé stessi[4].

Il mancato riconoscimento di questo genere di bellezza, ci riporta alla questione attualissima del deficit nella società non tanto di valori umani in assoluto, che in gran parte sembrano esistere nella memoria collettiva, quanto dell’impiego delle concezioni che li hanno ispirati come paradigma per interpretare la realtà e per condursi agendo in coerenza con quanto si ritiene in astratto giusto. È facile oggi incontrare persone che mostrano totale incoerenza fra le cose in cui credono e il modo in cui agiscono, e sono molti quelli che riservano la loro fedeltà ideale esclusivamente al tifo calcistico. Non è raro vedere cristiani, musulmani, buddisti, ebrei e neomarxisti che si comportano nella vita quotidiana da idolatri adoratori del dio danaro, attribuendo valore e stima in base ai livelli di costi, prezzi e stipendi nella realtà mercificata.

Riconoscere la bellezza concreta richiede solo che si coltivino delle doti naturali; il riconoscimento della bellezza astratta richiede invece l’adesione a un sistema di valori che consenta di decodificare nella dimensione simbolica il senso ammirevole di atti, gesti e pensieri.

Si diceva di recente che, se si vuol trovare la bellezza, bisogna che la si cerchi in primo luogo dentro di sé[5], perché non è sufficiente una semplice rilevazione percettiva per farne esperienza, ma occorre uno stato interiore adeguato. In effetti, la distinzione fra l’universalità della bellezza naturale e la parzialità della bellezza culturale, che sicuramente è parte dell’esperienza comune, a noi è stata suggerita dal paradigma neuroscientifico, ma si può anche osservare l’influenza di uno stato di bellezza interiore su ogni vissuto percettivo, anche il più elementare e ordinario. E, forse, il ruolo di coloro che riconoscono il bello e lo indicano agli altri consiste proprio nel suscitare una sensibilità sopita o “nell’evocare nell’altro uno stato psichico incline a percepire e concepire la bellezza come realtà che genera esperienze estatiche, affetti motivazionali o energia creativa”[6].

Sembrano essere pochi oggi coloro che si assumono il compito di indicare il bello e trasmettere lo spirito adatto a riconoscerlo, forse anche per una perdita di condivisione di valori assoluti che trascendono l’esperienza quotidiana di utilità e necessità. La scorsa settimana ho scritto: “…forse, la difficoltà di oggi nel comprendere e rendere attuale la bellezza prodotta dallo straordinario connubio del passato tra arte e fede ha origine proprio, in questa umanità cinica, dall’inaridimento della fonte interiore dei sentimenti più alti, profondi e veri di cui è capace l’animo umano”[7].

Keats ammirava la bellezza nella poesia di Shakespeare, che celebrava l’incanto della forma rimandando esplicitamente al valore morale, come si legge nel celebre sonetto 54: “Oh quanto più bella la bellezza sembra dal soave ornamento che la virtù le dona. Bella la rosa appare ma più bella si tiene per quel dolce profumo che a lei dentro vive[8].

Il profumo di virtù illumina dall’interno la donna ideale shakespeariana che realizza valori trascendenti nella signoria di sé, come già Beatrice per Dante, e come le donne celebrate dai poeti dell’antichità classica, anche se spesso trascurate dalla storia, che ha più spesso preferito tramandare la fama delle etere poetesse o le dubbie virtù di Elena di Troia.

Se, come diceva Thomas Eliot[9], Shakespeare e Dante si sono divisi il mondo senza lasciare posto a un terzo, questo è avvenuto perché entrambi da un canto hanno parlato alla coscienza rappresentando la vita nella sua cruda e dolorosa realtà, dall’altra hanno offerto, con la bellezza etico-estetica della loro arte, uno strumento di sublimazione.

E Dante, guidato da Beatrice, nel XVIII canto del Paradiso, ci ricorda la bellezza di un altro grande valore morale, ossia la giustizia, rappresentata dal pianeta su cui si trova e che lui chiama dolce stella, quale metonimia della virtù divina che, premiando chi ha subito ingiustizia, ne addolcisce il cuore: “O dolce stella quali e quante gemme/ mi dimostraro che nostra giustizia/ effetto sia del ciel che tu ingemme”[10].

Promessa di questa alta giustizia morale, il sermone della montagna presenta la bellezza delle beatitudini, che capovolge l’ottica del mondo, risarcendo e consolando con un valore incommensurabile, in una dimensione in cui non conterà più la materialità dei bisogni, chi ha subito ingiustizia, chi soffre, chi è povero, chi ha patito perché mite e misericordioso, chi ha vissuto la rinuncia per rimanere puro.

Una parte considerevole dell’arte sacra è stata storicamente concepita come espressione estetica percepibile, in grado di evocare la bellezza spirituale e trascendente del messaggio biblico e, in particolare, della buona novella evangelica.

In proposito, San Giovanni Paolo II osserva: “La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di «immenso vocabolario» (P. Claudel) e di «atlante iconografico» (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana. Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione”[11].

Dall’Annunciazione di Maria all’episodio dell’Angelo che comunica la Resurrezione del Signore, passando per la Trasfigurazione e i numerosi miracoli, il Vangelo è la fonte di ispirazione della maggioranza delle opere del patrimonio artistico italiano, e quel connubio tra arte e fede ha consentito di raggiungere vertici nella sublimazione estetica del dolore, universalmente considerati ineguagliabili: si pensi alla Pietà di Michelangelo in San Pietro.

La bellezza del corpo, che attrae anche indipendentemente dall’interesse di carattere sessuale o dal ruolo di stimolo erotico, propone la questione della rappresentazione del nudo, cruciale nell’arte e controversa nella cultura in molte epoche della storia, ma molto interessante da considerare, perché comprendere il rapporto dell’arte con il corpo allo stato naturale, può consentire di valutare la plausibilità dell’attribuzione di valore artistico ai film centrati su nudità ed erotismo.

Michelangelo, sublime interprete di valori artistici e morali, è stato probabilmente, fra i grandi, l’artista che ha fatto il maggior ricorso alla rappresentazione del corpo nudo. Ma questa scelta ha avuto sempre origine da una necessità di verosimiglianza, se non di realismo concettuale. Non sono certo nudi, nella Sistina, le Sibille o i Profeti: è nudo Adamo quando è stato creato così come Eva nell’episodio della tentazione quando, secondo il testo biblico, la prima donna e il primo uomo erano nudi ma non consapevoli di esserlo; ossia la nudità come stato di coscienza.

Sono nude le figure del Giudizio Universale, in quanto morti resuscitati e, dunque, con un corpo ricostruito dal potere divino – oggi diremmo sulla base della traccia lasciata dagli atomi del corpo di ciascuno nella dimensione dell’antimateria – nella sua struttura naturale.

È nuda la figura dell’uomo nuovo, come un Cristo senza croce, eterno presente, con le braccia aperte in uno slancio che collega il mondo del passato all’orizzonte futuro. È nudo anche perché Michelangelo lavorava deliberatamente e intenzionalmente per i posteri – come ho ricordato la settimana scorsa – e non voleva contrassegnare quella figura con un qualsiasi segno di un’epoca particolare.

Come insegna il cristianesimo: l’uomo nella sua essenza è sempre lo stesso e, se nella vita il singolo uomo invecchia e muore, nella storia umana chi nasce riproduce sostanzialmente lo stesso progetto. È suggestivo il fatto che lo studio sulla base della biologia evoluzionistica applicata alla paleoantropologia non smentisce questa tesi in quanto, da quando è apparso homo sapiens sapiens, i cambiamenti evolutivi sono stati insignificanti.

Michelangelo, come prototipo dell’artista e la sua opera quale paradigma per decidere del valore artistico di lavori prodotti in un ambito diverso delle attività creative umane, è sicuramente una scelta che può destare delle critiche, ma non mi sembra un arbitrio infondato; anche perché ci consente di considerare un aspetto molto importante del lavoro degli artefici, che distingue gli autori delle opere dai semplici spettatori: il possesso delle abilità necessarie a realizzare e portare a compimento le opere. Ad esempio, disegnare e dipingere una modella, rendendo i toni chiaroscurali, i volumi e le tinte, non è la stessa cosa che fotografarla con un dispositivo automatico digitale: nel secondo caso basta inquadrare e scattare. Poi, se si vuole, se ne possono ricavare delle stampe e farsene fare delle copie di grande formato, come quello dei disegni degli artisti. Per arrivare a tracciare su dei fogli con uno schisto argilloso detto pietra d’Italia[12], come faceva Michelangelo, i profili e i volumi dei corpi con le loro membra nelle varie posizioni e angolazioni prospettiche necessarie ai soggetti delle opere d’arte, occorrono anni di studio.

Nella riproduzione tecnica delle immagini ci si può concentrare su luci, espressioni, contesto e su tutto quanto ha a che fare con gli aspetti da cogliere e le idee da esprimere attraverso una ripresa. Mentre nella prospettiva dello scultore e del pittore il nudo è un cimento e una sfida di comprensione della forma e di imitazione manuale che richiede, più di tanti altri soggetti, abilità, perizia e cura.

Michelangelo Buonarroti da giovanissimo, pur avendo dato prova di indiscutibili capacità con la Madonna della Scala e altri lavori adolescenziali, aveva problemi nell’esecuzione di mani e piedi; come altri artisti, si sarebbe potuto accontentare della capacità di risoluzione raggiunta, eventualmente ricorrendo a vari trucchi del mestiere per nascondere le imperfezioni di dettaglio o evitare le posizioni più difficili[13]. Michelangelo si fece obbligo di diventare il migliore a rappresentare le estremità umane, sottoponendosi a un duro, articolato e razionale esercizio quotidiano di disegno, con realizzazione di sagome e prototipi tratti da copie dal vero, di ogni tipo di mano e piede, maschile e femminile, di bambini, giovani e anziani. La storia dell’arte e le biografie degli artisti sono piene di esempi che dimostrano che il nudo ha costituito, dal Rinascimento al Novecento, un banco di prova.

Sempre alla ricerca della bellezza è stato il pittore romantico, maestro del nudo e direttore dell’Accademia di Venezia, Francesco Hayez. Autore di uno straordinario numero di quadri celeberrimi, è quasi impossibile non aver mai visto la riproduzione fotografica di un suo dipinto: sono suoi i ritratti di alta precisione fotografica[14] e ineguagliabile realismo espressivo, con i quali abbiamo conosciuto dai libri di scuola Alessandro Manzoni, Camillo Benso Conte di Cavour, Massimo D’Azeglio, Ferdinando I Imperatore d’Austria e Gioacchino Rossini, per citare i più noti. Il bacio di Hayez, virato in monocromia blu, è esportato in tutto il mondo come icona dei Baci Perugina. Il valore d’arte del suo contributo alla riproduzione del nudo è sostanzialmente consistito nel conferire delicatezza poetica ed espressività emozionale al realismo che il neoclassicismo, senza più i virtuosismi di Jacques-Louis David e degli altri capiscuola, aveva ridotto ad esercizio accademico.

Non è necessario essere grandi intenditori d’arte o aver fatto specifici studi per apprezzare gli aspetti più evidenti dell’interpretazione personale che ciascun autore ha conferito al corpo senza indumenti. Il bagno turco di Jean Auguste Dominique Ingres, un tondo di poco più di un metro di diametro che raffigura una ventina di odalische nude nella sala del bagno di vapore di un harem, con una figura di spalle in un’evidente posa michelangiolesca, trasmette contenuti ben diversi da quelli del Bagno di ninfe[15], della Betsabea al bagno e delle altre fanciulle nude di Hayez. Oltre alla differente cifra stilistica, alla staticità delle pose di Ingres contrapposta all’espressività recitativa delle figure di Hayez, si nota che i due artisti, ciascuno col proprio linguaggio, ci parlano attraverso disegno e tono cromatico di ogni più piccola parte del corpo. Se guardiamo le opere dal vero, magari con l’aiuto di un pittore, possiamo leggere il tempo del lavoro, non inteso come precisa misura cronologica, ma come concetto generale di impegno protratto. Il bagno turco ha richiesto tre anni per essere completato e le opere di Hayez, sia pure con tempi più contenuti perché realizzate sulla scorta di un intenso esercizio accademico di disegni e bozzetti paradigmatici, sono il frutto di impegno attento e tenacia perseverante. Il valore artistico dei nudi non è nel geniale impasto cromatico di una pennellata conferita di getto sulla tela, ma nello studio attento e nell’abilità espressa attraverso la tecnica pittorica.

L’artista come presentatore di persone o cose, quali “opere” che non ha materialmente realizzato ma ha semplicemente trovato o assemblato e portato in mostra, rappresenta una discutibile invenzione della seconda metà del Novecento, nata in contrasto con la concezione antica e rinascimentale dell’autore di opere quale homo faber. Secondo questa nuova visione, l’artista è semplicemente un osservatore sensibile che coglie nella realtà aspetti meritevoli di attenzione e li indica agli altri, o tutt’al più fa qualcosa “ad arte”[16].

La concezione classica dell’artista, che ha attraversato i millenni, è quella dell’artefice. E i requisiti necessari perché possa essere ritenuto tale sono il possesso di un talento naturale e di una tecnica lungamente esercitata che consenta un’adeguata espressione del talento. Considerata la diffusa perdita di consenso della tesi che un autore d’arte non deve essere un artefice, ma basta che sia un presentatore di oggetti o un selezionatore di immagini, possiamo assumere la visione tradizionale secondo cui l’arte suppone un manufatto e un artefice e, se non c’è arte senza opera, si può dire che non c’è arte senza artista.

Dunque, secondo questo criterio – che non so quanti si sentono di condividere – per attribuire valore artistico a un lavoro cinematografico, l’autore dovrebbe essere riconosciuto quale artista e il lavoro compiuto dovrebbe meritare la qualifica di opera d’arte.

Il filone di film vuoti, scadenti o solo mediocri, che oggi conosciamo attraverso le riproposizioni televisive, sviluppato tra gli anni Settanta e Ottanta intorno all’idea di mostrare nudità e sfruttare in ogni modo la curiosità destata da argomenti sessuali per portare gente al botteghino, ha avuto antecedenti in lavori cinematografici, certo non memorabili per trama, recitazione, tecnica narrativa e fotografia, ma con qualche pretesa culturale e artistica. Mi riferisco all’episodio con Nino Manfredi del Vedo Nudo di Dino Risi, a Dove vai tutta nuda? di Pasquale Festa Campanile, ai due Satyricon, quello di Fellini e l’altro di Polidori, e a La Marcusiana. Quest’ultimo film, centrato sull’indottrinamento all’uso di pratiche sessuali per puro piacere al di fuori di qualsiasi concezione morale, fu distribuito nel 1969, anno in cui il Procuratore della Repubblica di Milano disponeva il sequestro e la distruzione di tutte le copie del disco Je t’aime…moi non plus, perché la canzone simulava un rapporto sessuale.

Nel 1969 era venuto in Italia, accolto come un divo da fotografi e giornalisti, il filosofo Herbert Marcuse, autore di Eros e Civiltà, un saggio che nella trasposizione sociologica di tesi psicoanalitiche aveva rivelato non pochi fraintendimenti del senso e della portata del pensiero freudiano, ma che nel nostro paese era stato adottato dai giovani contestatori e dagli intellettuali di sinistra come manifesto della liberazione sessuale. Per evocare un’opera di ben altra caratura dello stesso Marcuse, ossia L’Uomo a una dimensione, il film La Marcusiana fu distribuito anche con il titolo La Donna a una dimensione.

Un fatto decisivo si verificò nel 1971, quando fu rifiutato il sequestro già disposto del Decameron di Pasolini perché considerato un’opera di valore artistico: da quel momento, di fatto, non vi sarà più censura per i film erotici, eccetto il divieto di assistervi per i troppo giovani, mentre il genere pornografico sarà ammesso secondo regole specifiche di programmazione. Il film di Pasolini, come quelli di Fellini e Visconti, era stato ideato seguendo un’ispirazione originata da uno studio approfondito del soggetto, ma soprattutto era da considerarsi un lavoro sperimentale di un letterato e pensatore di notevole spessore che si era dedicato alla regia cinematografica. Natura completamente diversa e assenza di queste qualità ebbe la maggior parte delle pellicole che poté beneficiare del mutato orientamento delle commissioni ministeriali[17]. Cominciò così, da noi, la corsa allo sfruttamento commerciale attraverso il grande schermo del corpo, e del corpo femminile in particolare, che dura tuttora a mezzo secolo di distanza.

All’inizio di queste considerazioni ho discusso di bellezza ammirata e bellezza ignorata, nei casi di sfruttamento a scopo di lucro di immagini volgari in contesti banali, parlerei di bellezza mancata.

Pur essendo consapevole del fatto che il giudizio del valore di un’opera cinematografica si fonda su criteri molto diversi da quello proposto da me per giudicare l’artisticità del nudo, e che rifarsi a concezioni espresse fin dall’antichità per la realizzazione manuale di imitazioni delle forme naturali mediante la scultura e la pittura possa apparire inappropriato, ritengo e spero che molti mi possano comprendere se dico che in assenza di un alto valore civico, storico, documentale, filosofico o religioso, senza bellezza non c’è arte.

 

L’autrice della nota ringrazia il presidente Giuseppe Perrella per la partecipazione all’elaborazione e alla stesura del testo e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Monica Lanfredini

BM&L-21 novembre 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Note e Notizie 24-10-20 Il Ritorno della Bellezza; Note e Notizie 31-10-20 Una legge contro i distruttori di bellezza; Note e Notizie 07-11-20 Alla ricerca della bellezza perduta; Note e Notizie 14-11-20 Ancora alla ricerca della bellezza perduta.

[2] Cfr. Giuseppe Perrella, La bellezza: essenza di un valore che supera le concezioni ideali, p. 2, BM&L-Italia, Firenze 2019-2020 [Testo di un discorso introduttivo per un incontro non più tenuto, causa coronavirus].

 

[3] Cfr. Giuseppe Perrella, op cit., p. 3.

[4] Giuseppe Perrella, op. cit., p. 7.

[5]Il primo luogo dove cercarla, con la disposizione al ciceroniano invenio che, se necessario, si fa invento, è dentro di sé” (Note e Notizie 07-11-20 Alla ricerca della bellezza perduta).

[6] Cfr. Giuseppe Perrella, Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, incontro del 4 marzo 2018. L’importanza nel mondo di oggi del ruolo di chi riconosce la bellezza e con la sua ammirazione e il suo rispetto la indica agli altri, è stata la tematica di fondo dello scritto Alla ricerca della bellezza perduta.

[7] Note e Notizie 14-11-20 Ancora alla ricerca della bellezza perduta.

[8] William Shakespeare, Sonetti, n° 54, Mondadori, Milano 2016.

[9] Thomas Stearns Eliot (T. S. Eliot), insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1948, è stato un poeta, saggista e critico letterario statunitense, nato a Saint Louis e poi naturalizzato britannico.

[10] Dante, Paradiso, Canto XVIII, vv. 115-117, p. 515, “I Meridiani Collezione”, Mondadori, Milano 2006. Dante passa dal cielo di Marte a quello di Giove (la dolce stella) dove si proclama la giustizia divina. Questo canto, poco considerato dai critici perché posto fra i due celeberrimi di Cacciaguida e dell’aquila, è un canto rilevante proprio per la bellezza, che fece dire al Tommaseo: “Tra i canti della terza cantica uno de’ più belli”.

[11] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti, §5: L’arte davanti al mistero del Verbo incarnato. Libreria Editrice Vaticana, Roma 1999.

[12] Non esisteva ancora la matita, che ha la mina costituita da grafite temperata con argilla.

[13] Dei pittori che evitavano il cimento con queste difficoltà si diceva che dipingessero santi calzati e altre figure con le mani nascoste dal reggere qualcosa.

[14] In molti casi utilizzò dei dagherrotipi.

[15] Si vuole sia un’attualizzazione romantica del tema “Diana sorpresa da Atteone”.

[16] Si narra di un artista tedesco che, in una mostra negli USA, aveva esposto tra le sue opere una sedia su una pedana, similmente a quanto aveva fatto un suo collega più famoso tanti anni prima alla Biennale di Venezia. Un operaio di una fabbrica di mobili di Fresno (California) protestò dichiarando pubblicamente di aver fatto lui quella sedia e di esserne, pertanto, l’autore. L’artista non volle sentire ragioni e sostenne che, avendola comprata e regolarmente pagata, l’operaio non potesse più accampare alcun diritto. Finirono in tribunale. Al processo, l’operaio disse: “Se divento ricco come Bill Gates e mi compro la Gioconda, quando la vado ad esporre non posso dire di averla fatta io, solo perché l’ho regolarmente pagata; posso dire di esserne il proprietario, ma devo dire che l’autore è Leonardo da Vinci”. Alla lettura della sentenza, il giudice precisò: “Sebbene a questa corte sia presente la differenza che passa fra una sedia e la Gioconda, si ritiene corretto in linea di principio il ragionamento e si riconosce il ruolo di autore a colui che ha materialmente fabbricato l’oggetto. Pertanto, in caso di altre mostre, la sedia sarà esposta col nome dell’autore materiale e, in caso di vendita come opera d’arte, la cifra corrisposta andrà al mobiliere, mentre all’artista sarà riconosciuto un compenso secondo la quota percentuale stabilita dalla legge sulla mediazione commerciale”.

[17] Per ottenere la patente di opera degna di essere proiettata nelle sale cinematografiche delle grandi città, i registi di modesti film del filone erotico adottavano dei trucchi: far pronunciare ai protagonisti 3-4 citazioni altisonanti o frasi a effetto di contenuto letterario o filosofico a seconda del soggetto; coprire con un tema musicale importante ad alto volume le scene più scabrose; lunghe pause per creare atmosfera e inquadrature sui volti pensosi; mostrare immagini di eleganti architetture per gli esterni e delle preferenze “colte” o elitarie di almeno uno dei protagonisti: scacchi, quadri d’autore, oggetti d’antiquariato, auto di lusso, ecc.

In un incontro informale, un anziano regista che ricordava quei tempi ha riferito che alcuni produttori improvvisati confessavano: “Si spende un po’ per le musiche e per un buon direttore della fotografia… e il gioco è fatto!”